Il Borgo Villalta.

Verso la fine degli anni ‘50 veniva chiamato borgo Villalta la zona che si estendeva, per alcune centinaia di metri, ai piedi della Torre di Porta Villalta. Sulle antiche pietre del suo frontale, un ignoto coscritto, tanti anni prima, aveva dipinto con una vernice rossa, ormai sbiadita dal tempo, la scritta:

1918
NATI AL ROMBO DEL CANNONE.

 Oltre la torre scorreva il Ledra e la città finiva lì. Subito al di là del canale, sulla destra oltre il ponte, si ergeva una stupenda villa liberty, tutt’ora esistente, che aveva alle sue spalle la fabbrica di birra. Il signor Dormisch aveva pensato bene di spostarsi dalla sua Resiutta verso la fine del 1800, per farsi casa e bottega a Udine e vendere la sua rinomata birra.
Le attuali viale Leonardo da Vinci e via della Faula, allora erano due strade di terra battuta affiancate da fossi dove scorreva dell’acqua popolata da innumerevoli sanguisughe. Questi graziosi animaletti erano molto ricercati dai ragazzini della zona per fare degli inopportuni scherzi a parenti e amici.
La distesa di campi coltivati a grano o a mais lasciava intravedere, sfumate in lontananza, le prime case di Passons, che era in un altro comune, remoto, quasi all’estero. L’edificio, che si ergeva solitario tra i campi, era il nuovo Archivio di Stato, eretto nel 1955 in stile razionalista e contrastava parecchio con le rare case coloniche sparse nella zona.

Le vie di borgo Villalta, pavimentate da un ciottolato lucido e consunto, erano scarsamente illuminate da lampioni di ferro infissi sulle pareti delle case, molto distanti uno dall’altro che, di notte, offrivano una fioca e malinconica veduta. Per non far torto a nessuno, il comune aveva provveduto a fissare i lampioni alternandoli sulle case di destra e su quelle di sinistra. Il borgo vero e proprio era formato da due vie e da un paio di vicoletti meno importanti. Via Superiore era la parte che si riteneva più nobile, mentre la via Villalta era quella considerata meno nobile e più popolare. Nessun forestiero avrebbe mai notato questa differenza senza essere informato da uno degli abitanti del borgo che ci tenevano a questa distinzione e ne andavano fieri. Era una sorta di campanilismo tra le due vie, ma che rafforzava tra gli abitanti, il senso di comune appartenenza al borgo. Il detto comunemente diffuso che descriveva, in rima ed educatamente in lingua italiana, la situazione, recitava così:

In via Villalta
la merda è alta
e in via Superiore
si sente l’odore.

In questo modo non esistevano privilegi e nessun abitante di una via poteva invidiare quello dell’altra.

Non molto distante da borgo Villalta esisteva borgo San Lazzaro (borc San Lazar) ancora meno nobile e più malfamato. Quasi ogni notte, davanti alle sue numerose osterie scoppiavano, per futili motivi, delle risse tra ubriachi, ma raramente cruente. Era il luogo di lavoro di numerose prostitute e quasi ogni osteria disponeva, al piano superiore, di camere adatte allo svolgimento di tale professione.

Però anche via Villalta, che non era da meno, aveva il suo casino regolarmente in servizio, in piena attività fino agli inizi del 58’. Dopo l’entrata in vigore della legge Merlin, proseguì la sua attività, ma sotto mentite spoglie, con modalità leggermente più complicate. Ovviamente, nel borgo non mancavano le osterie.

Tre di queste erano raggruppate vicino alla vecchia torre, nella confluenza tra le due vie principali. Cita, Mega e Lis Pieris erano i tre locali strategici che venivano collettivamente denominati il Triangolo delle Bermude. Era usanza diffusa tra i consumatori di vino, farsi un taiut in compagnia in ognuna delle tre e poi ricominciare a rotazione una volta finito il primo giro. La denominazione era particolarmente azzeccata poiché nessuno si salvava dopo alcuni giri nel Triangolo e regolarmente si perdeva nei fumi dell’alcol. L’unica differenza con le Bermude era data dal fatto che nei Caraibi le sparizioni erano misteriose, mentre quelle nel borgo erano spiegabilissime.

Non mancavano i negozi di generi di prima necessità e quasi tutti si trovavano nella via Villalta che era la più commerciale delle due. La di Meni era un’osteria, proprio di fronte al casino, che vendeva anche sigarette e, volendo, anche sfuse. Ambiva a diventare un polo di attrazione supplementare per i fumatori che, con l’occasione dell’acquisto delle sigarette, non potevano rinunciare a un tajut, magari di fretta, prima di rientrare nel Triangolo.

Rino Cragne invece, offriva specialità alimentari e verdure di ogni tipo anche se in condizioni igieniche primordiali ma, all’epoca, gli anticorpi erano molto più allenati ed efficienti rispetto a quelli di oggi.
C’era poi una latteria dove si andava a riempire la bottiglia di vetro portata da casa, col latte venduto sfuso. A pochi passi, c’era un concorrente di Rino Cragne, ma più evoluto, che aveva una scelta più ampia di alimentari e verdure, in condizioni igieniche meno precarie.
Gli abitanti di via Superiore, ovviamente, sceglievano quest’ultimo per i loro acquisti.

L’offerta gastronomica era completata, alla fine della via Villalta, con una panetteria e una macelleria, entrambe di livello superiore rispetto agli altri negozi del borgo. Proprio alla fine della via, esisteva un altro negozio di alimentari, Sarnagiotto, fornitissimo e in condizioni di competere agevolmente con quelli del centro città sia come assortimento e sia come condizioni igieniche. C’era il dubbio però, se facesse parte del borgo o fosse oltre il confine. Il dubbio era generalizzato tra gli abitanti, anche se non impediva loro di frequentarlo, ma lo facevano con una certa deferenza. l suo nome aveva assunto addirittura un valore di riferimento quasi mistico, persino nei comuni discorsi tra la gente del borgo.
Dire a uno: a ti no ti bat nancje Sarnagiotto, significava dare dell’invincibile a quella persona. Nella via Superiore, invece, esisteva un solo negozio di alimentari, piccolissimo, La di Caroline, dove i ragazzi andavano a comperare carrube e castagne secche dette strassa ganasse, che facevano la gioia dei dentisti dell’epoca.

Nel borgo, quindi, si poteva trovare ogni ben di dio, compreso
il Triangolo delle Bermude.

L’osteria che eccelleva era Lis Pieris che, sul retro, aveva anche due campi per il gioco delle bocce. Il suo nome derivava da due grosse pietre, che in passato erano state poste ai due lati dell’ingresso, sulle quali le donne, che andavano a prendere l’acqua alla fontana, si sedevano a riposare e a scambiarsi qualche pettegolezzo. In quegli anni solo pochi facoltosi avevano l’acqua corrente in casa.

Nella maggior parte delle abitazioni non c’era e le donne si procuravano l’acqua per la casa con due secchi, appesi a un giogo che portavano sulle spalle, dopo averli riempiti alla fontana pubblica posta su un lato della Torre. Le altre due osterie erano comunque frequentatissime in quanto erano poste ai vertici del Triangolo strategico. I bevitori cercavano, senza favoritismi, di dare lavoro equamente a tutte e tre e ci riuscivano egregiamente.

Si poteva valutare il flusso di avventori, che arrivava anche dal centro città, dal numero di biciclette appoggiate al muro di ogni osteria. Non indicava necessariamente le presenze all’interno del locale sul muro del quale erano appoggiate, ma solo le presenze nel Triangolo, in quanto i trasferimenti lungo i tre lati, avvenivano a piedi e, in genere, barcollando. Molti, prima del rientro a casa, chiedevano aiuto agli osti, gli unici rimasti più o meno lucidi, per rintracciare la propria bicicletta dispersa nel famigerato Triangolo.

Le case su entrambe le vie erano tutte ininterrottamente accostate una all’altra e molte avevano dei portoni che davano accesso alle corti interne sulle quali si affacciavano altre numerose abitazioni. I numeri civici servivano a ben poco perché per identificare un’abitazione si preferiva favorire l’interlocutore che chiedeva indicazioni, dicendo la di Vigi o la dal sartor5 o con termini simili riferiti a personaggi ben conosciuti nel borgo. In questo modo l’informazione era precisa e non lasciava adito a dubbi.